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1846, di
Andrea
CITTADELLA VIGODARZERE
TERRE APONENSI ABANO – S. DANIELE – CASA NOVA – MONTE-GROTO ex S. PIETRO MONTAGNONE – MONTE ORTONE Pensano parecchi descrittori di queste Terme che il nome di Abano comprendesse negli antichi giorni anche i luoghi ora distinti colle denominazioni di s. Pietro Montagnone, di Monte-Groto, di Monte Ortone e di Casa Nova; che splendide fabriche ricoprissero tutto lo spazio interposto fra questi siti, in cui scaturisce e ribolle l’aqua salutifera, e che dalla distruzione di quelle vetustissime costrutture originassero le nuove denominazioni parti incomplete e quasi frantumi di quella primitiva e molto più estesa. Per ciò nel ricordare la condizione più antica di questi celebratissimi bagni devesi, aggiustando fede ad autorevoli congetture (1), riempire una superficie di circa tre miglia ora vuota; imaginarla folta di abitazioni ampie, pompose, eleganti; ornata di simulacri di monumenti, di templi; popolata da quelle genti di tempi e costumi romani, le quali riunivano nelle terme tutto quanto può giocondare più voluttuosamente la vita e fisica e intellettuale; ed a questo modo soltanto giungeremo a ricomporre la primitiva importanza della voce Abano. Già a simili rifacimenti sono avvezzi i lettori delle istorie, e specialmente tutti i visitatori di regioni, la cui iattura è consolata dalle sagaci e imaginose illustrazioni dell’Archeologia. Guai se non crede ai dettati di questa taumaturga risuscitatrice del morto passato quegli che va cercando nel golfo di Napoli i bagni di Pozzuoli e di Baia! Essa ci narra come le sontuose architetture, le squisitezza della eleganza, le morbidezze della voluttà, i prodigii di tutte le arti facessero in Pozzuoli ed in Baia studioso corteggio ai malori, alle intemperanze, ai vizii ed alla sazietà della ricca e snervata potenza di Roma. Ma al presente su quel lido famigerato più non rimangono che poche, manomesse, confuse reliquie, tra le quali l’eco di diciotto secoli ripete fievolmente i nomi di essedre, di criptoportici, di eliocammini di xisti, di piscine, di atrii, di templi; e il vento batte le effigiate muraglie, il fiotto marino invade i sotterranei storiati, i raggi di un fervido sole rallegrano di ricca vegetazione la mestizia dei ruderi ammonticati e delle sperperate rovine. Alle Terme Partenopee, secondo gl’illustratori delle padovane cose, erano pareggiate nella rimota antichità le Aponensi; ed ora anche queste chiedono che noi usiamo dell’Archeologia, e il nostro lettore di una liberale credenza. Alcuni de’ nostri cronisti cavano fuori la etimologia della voce Abano dalla notte de’ tempi favolosi, narrandoci che venuti qua gli Euganei con Ercole, il quale tornava dalle Spagne vittorioso di Gerione, determinarono di non più partirsene; e perciò codesto luogo aponon, cioè luogo di riposo appellarono; ed inoltre al debellato ibero nemico edificarono un tempio, pel quale crebbe a più doppii la fama del sito. Perché qui venivano non solo i malati a cercar salute, ma ben ancora i curiosi dell’avvenire a dimandare di oracoli il divinizzato Gerione (2). Fra questi ultimi fu Tiberio, il quale capitò qua per risapere se sarebbe pervenuto all’impero, e lo confermarono nell’avida speranza le faccie segnate col numero maggiore che presentarono i dadi d’oro da lui gittati per volere dell’Oracolo nella fonte. Attesta Svetonio, che a’ suoi dì que’ dadi si vedevano ancora entro al bacino. A queste fonti fatidiche vennero poscia collo scopo medesimo di scrutare il futuro anche gl’imperatori Claudio e Firmo. Sedendo sul fumoso colle di Abano, Cornelio Augure narrava i particolari della pugna fra Cesare e Pompeo nel giorno e nell’ora stessa in cui si combatteva sui campi di Farsaglia, e finiva la narrazione esclamando : Cesare tu vinci. (3). Non vi ha traccia che guidi a fissare con qualche probabile argomento il sito dove sorgeva un giorno il famigerato delubro; ne rimangono più sopra il suolo le rovine dei tanti edifizii magnifici, onde il Padovano dicevasi Terra Apona, appellativo nel quale taluno scorse con acutezza soverchia la etimologia di Padova. Dell’atterramento loro è incertissima l’epoca; ché pur troppo in ogni parte d’Italia ci ebbe miserabile dovizia di cause distruggitrici. Dopo che il colosso romano rimase cadavere, tanti e diversi popoli piombarono a dilaniarne il cuore, che la colpa di questo e quello fra gli innumerabili guasti sfugge ad ogni più accurato processo, e si cela nel buio dei bassi tempi, quando era fatale che tutta questa classica terra diventasse un cupo sepolcro, il quale inghiottì i suoi monumenti e le sue glorie insieme alle maledette ossa dei furibondi invasori, che furono a vicenda gli uni degli altri aggressori e carnefici. In cosiffatta incertezza gli scrittori della patavina istoria ne accagionano Attila, il distruttore delle mille città, la spaventosa personificazione di ogni più feroce barbarie. E diffatti si rileva per induzione dai documenti che alloraquando il più mite dei re barbari dominatori d’Italia, commetteva con magnanimo intendimento la ristorazione delle Terme Aponensi, non duravano più le costrutture meno vicine alla sorgente di Monte Irone; ma restavano quelle solamente del luogo che serba anche oggidì con più limitata significazione il nome di Abano. La lettera scritta da Cassiodoro per ordine di Teodorico all’architetto Luigi, benché sia dubbio se avesse o no effetto, onora sommamente il principe Goto. In questa famosa scrittura che sente qua e là di calore poetico, ci ha una leziosa descrizione delle bocche infiammate esalanti nebulosi vapori, della insolita intrinsecata federazione del fuoco e dell’acqua; della sensibilità dell’acqua, che passando per le ignee vene della terra ferve di calor peregrino e, sprigionata dai tenebrosi meati, rattiepisce e riprende per gradi la connaturale sua frigidezza. Osserva inoltre il segretario di Teodorico, che la prodigiosa linfa con oppositi effetti produce il sale nimico alla vegetazione mantenendo insieme una fresca verzura sul terreno che inaffia; e che la sua virtù medicante deriva dallo zolfo che incalorisce, e dalla salsedine che dissecca. In questa curiosa lettera si trovano eziandio celebrate due mirabili proprietà di codeste fonti, le quali sfuggirono alle tanto indagini de’ chimici ed osservatori della natura de’ seguenti quattordici secoli. Una di queste proprietà è la pudicizia. perché narra il buon Cassiodoro, che se, nell’acqua tepida ove si bagnavano gli uomini entrasse mai a tuffarsi una femmina un subito incendioso calore le rodeva la pelle. Di più era quell’onda una specie di giudizio di Dio; mentre racconta il suddetto, che se il rubatore di una pecora ve la immergeva per spelarla, non se ne staccava come di solito il pelo. Laonde nel dubbio chiarivasi con certissima prova la innocenza o la reità. Ma questo documento, che ci fa sapere tante belle cose, non porge nessuna notizia di fabriche suntuose che occupassero un largo spazio di suolo dattorno alle fonti; e solo accenna al palatium crollante, ed alla Casa de’ bagni publici. Claudiano, che venne in Padova coll’imperatore Onorio (4), cantò in cento versi le nostre terme, e fece del suo meglio per magnificarne i fenomeni ingemmandoli colle moderate metafore di pomici anelanti, di mare combusto, di terra natante, di umide fiamme, di mammelle vulcaniche; e suppone esserne causa Flegetonte, che dall’abisso, irrompa nel nostro mondo. Altri versi laudatorii dettò Ennodio vescovo di Pavia, qua venuto nel quinto secolo. Anche codesto carme luccica di scintille poetiche simili alle precedenti: il fuoco pacifico si mesce anelante alle aque; i roghi stanno in fusione per entro ai flutti; i rugiadosi vapori disseccano umettando i corpi umani, che acquistano salute per alleanza di due diversi generi di morte, e il calore delle polle salubri origina da Vulcano il quale per non perire corre qua a tuffarsi colle Naiadi. La critica istorica usata senza timoroso rispetto all’autorità di riputati scrittori, senza connivenza alle ambizioni municipali rompe talora il fascino di molte credenze forti della efficacia di cosa giudicata per essersi successivamente ripetute da molti. Questa critica coraggiosa potrebbe armarsi di robusti argomenti per negare che le terme di Abano nemmeno ne’ tempi anteriori al terribilissimo Attila presentassero tale continuata ampiezza di fabriche da coprire una superficie di più miglia. Come mai in fatto e Cassiodoro e Claudiano ed Ennodio, che resero conto anche dei briccioli d’erba, degli sterpi e dei sassi, come mai non avrebbero fatta nessuna menzione delle vaste rovine, e della distruzione operata poco più di un mezzo secolo prima? E la mano sterminatrice deglí Unni avrà atterrato non solo quelle maestose sedi , ma raso il suolo e sepolti sott’esso anche i ruderi così, che non rimanessero più alla luce del sole nemmeno qualche rocchio di colonna e qualche scassinata parete? E i furori di Attila, che rovesciarono d’ogni intorno le decantate abitazioni, avrebbero poi solamente guastato e non strutto il Palatium e la Casa publica quasi per lasciare il destro a Teodorico di mettere in mostra la sua liberalità? Si noti che Cassiodoro dice essere il palazzo danneggiato solamente dal tempo - longa senectute quassatum – e non già dall’impeto devastatore degli Unni. Che se qua e là nelle vicinanze si dissotterrarono alquante reliquie, non manchevoli di pregio, e di epoca indubitatamente anteriore ai bassi tempi, ciò prova che in que’ luoghi sorgeva qualche abitazione signoresca, qualche tempio, qualche fabrica ad uso di terme, ricca, elegante, ornata quanto più si voglia; ma ciò non basta a provare quella congerie ed amplitudine di pomposi edifizii asserita dai nostri storici, ai quali vorrassi ad ogni modo facilmente perdonare la innocua iperbole. Possono i severi critici dubitare in secondo luogo sulla esecuzione del comando di Teodorico, e sull’aggiunta di una specie di Pecile lungo mille piedi con adiacenti amenità di giardini, di fa qualche cenno il nostro eruditissimo canonico Scardeone. Perché né delle restaurazioni operate dall’architetto Luigi, né di quell’appariscente loggiato non si vede più vestigio nessuno. Se non che a giustificarne la mancanza si ha ricorso agli sterminii del longobardo Agilulfo, del quale, se non suona nel tenere di Padova così spaventosamente popolare la rinomanza come quella di Attila, la ragione è puramente cronologica; solendo in ogni genere così di fasti che di enormezze la fama di chi viene secondo rimaner oscurata da quella di chi fu primo. Sotto la ponderosa ira di Agilulfo, inviperito dalla gloriosa resistenza dell’assediata Padova sparirono dunque nel secolo VII dalla faccia della terra le nobili prove della generosità di Teodorico e della perizia del suo architetto Luigi. Questo campo di edificazioni e di rovine, fu poi egli fecondo di scoperte? Ecco dimanda che ci verrà forse da chi diede buona prova di pazienza col leggere sin qui. E noi alla inchiesta porgeremo una risposta, che sembrerà sicuramente troppo breve a que’ pochi i quali sentono cordiale amorevolezza all’aggrinzata Archeologia; ed invece troppo lunga a quegli altri lettori di questa Strenna, i quali, tenendo in molto maggior conto il presente che non il passato, preferirebbero un elegante casino moderno alle rovinate terme di Caracalla, e una presa di tabacco allo svolgimento di un papiro egiziano inintelleggibile. Nei dintorni di Abano e di Monte-Groto fino da qualche secolo si trovarono brani di aquedotti e in pietra e in piombo; qualche troncone di grosse colonne marmoree scanalate; le fondamenta di più edifizii; alcune parti di statue e buon numero di medaglie quasi tutte dell’alto impero, ed alcune improntate nella faccia dell’effìgie di Augusto, e nel rovescio col cornucopia e le lettere S. C. Nel 1766 alcuni villani scavando una fossa rinvennero una statua intera di fino marmo e di buon lavoro alta 5 piedi, palliata, chiomata, barbuta, appoggiata ad un pilastro, con un vaso accanto. Erano presso questa quadrelli di mosaico in grandissima copia, medaglie di epoca imperatoria, una mano colossale tenente un fico, e un embrice, o tegola, segnata come al solito coll’indicazione della fabrica. Gli antiquarii si scatenarono come segugi dietro alla traccia per determinare chi fosse in quel simulacro rappresentato. E qua un diluvio di congetture diverse ed opposte e quindi per la maggior parte, dottissime sì, ma erronee. Prevalse la opinione che fosse un Esculapio, benché manchino gli ordinarii attributi della serpe, del bastone, della patera. E chi ne dubitasse può essere convinto, ed anche punito, dalla lettura della lunga Dissertazione publicala nel 1766 dal signor G. Z. V. La statua si vede al presente nel Museo veneziano. Lo scoprimento dell’Esculapio è tanto più notabile per ciò che se ne dedusse, il nume non dovesse rnancare di tempio; e quindi il sospetto che codesto tempio grandeggiasse sull’ umile cima di Monte-Groto, dove fu messo allo scoperto un largo pavimento marmoreo. Nel 1781 e nel 1788 furono dissotterrati tre bellissimi bagni di marmo e presso a questi gl’indizii di parecchi altri bagni, e di un’ampia fabbrica, con basi di statue; delle quali statue restavano solo alcune membra, e quasi intiero un piccolo Arpocrate, che si conserva ora nel museo di Cataío. Si sterrarono inoltre una moneta d’oro colla imagine di Vespasiano nella faccia e nel rovescio la Vittoria che lo incorona; una medaglia d’argento della gente Aufidia, molte frazioni di membrature architettoniche in marmo, lucerne, urne cinerarie, lacrimatoi, prefericolí, unguentarii, talismani; copia di monete in rame e di tegole letterate; frammenti di mosaico litostrato e di vermicolato; aquidotti in piombo e in macigno di lavoro diligentissimo. Il frutto di codeste escavazioni andò per la maggior parte disperso od impiegato nella formazione di nuovi bagni, ben diversi nella splendidezza dagli antichi. Posteriormente altri dissotterramenti si operarono dal dottor Giuseppe Mingoni, medico ed illustratore di queste terme; e il risultamento lo si vede raccolto nella Casa de’ Bagni in Monte-Groto appartenente alla famiglia Mingoni. Alquante iscrizioni votive furono in varii tempi trovate; tre di queste si leggono nel Museo di Verona, una nelle sale dell’Academia di Padova, una incastonata nella facciata dei bagni minori dell’odierno Abano. In Abano ebbero i natali parecchi illustri uomini. Fu aponense quel Cornelio Augure sopra nominato, che vide a tanta distanza ogni particolarità della pugna Farsalica: Aponense Arrunzio Stella, che salì al consolato, e che dettò versi di amore per Violantilla, lodati da Marziale. Stimano alcuni nascesse in Abano anche Valerio Flacco autore dell’Argonautica, lodatissimo da Quintiliano e legato in istretta amicizia con Marziale; che in uno de’ molti epigrammi, in cui ne parla, si studia di slontanarlo dalla poesia, e volgerlo al foro; mostrandogli come ai poeti non riesca di guadagnare altro dominio se non se quello di aque ove non si trova pesce, e di alberi che non mettono frutto. Non mancò chi sostenesse nato in Abano, e non in Teolo, Tito Livio fondandosi sulla testimonianza molto ambigua di Marziale, che nell’epigramma 62 lib. I mette insieme i nomi di Valerio Flacco, di Arrunzio Stella e di Tito Livio come altrettanti fregi dell’Apona terra. E per non frodare al tutto Teolo del suo maggior vanto, dicono che il magno Istorico, dopo la sua gloriosa e lunga dimora in Roma, settuagenario rimpatriò, e fermata stanza in Teolo vi morì l’anno 4° dell’impero di Tiberio. Il nome poi di Abano si collega inseparabilmente a quello del celebre medico filosofo ed astrologo Pietro, antesignano del sapere in Italia ed in Francia; uomo troppo al disopra de’ suoi contemporanei, perché non diventasse il segno di invidiose persecuzioni; fortunato solamente nella fama e nel poter scampare a tempo, morendo di malattia, il rogo degli eretici. Scendendo ora a trattare di epoche meno da noi lontane e meno caliginose possiamo, senza metterci in ostilità di contraddizione co’ nostri istorici venire alla divisione delle Terme Aponensi e discorrerne a parte a parte secondo il significato attuale dei nomi di Abano, Casanova, Monte-Groto, s. Pietro Montagnone e Monte Ortone. E difatti questi nomi, eccetto il primo, ebbero nascimento appunto ne’ tempi di mezzo, né si trovano usati anteriormente. Nel medío evo Abano era forte di un castello ristaurato da Ottone II che ne infeudava Ingelfredo de’ Conti. Spazzò il tempo insieme colle vantate pacifiche costrutture anche codesto munimento guerresco. Laonde il moderno Abano si compone di alquante modestissime case presso alla chiesa parrocchiale ricostruita ed ampliata recentemente per le zelose cure dell’arciprete Bozza; di alquante non ineleganti ville sparse qua e là nei dintorni; e di parecchi alberghi con bagni, alcuni lunghesso la via che mena alla parrocchia, ed altri vicini alla fonte di Monte Irone. i quali alberghi, sebbene non arieggino punto dalla prisca magnificenza, sono per altro acconciamente architettati e disposti, perché riuniscono sotto il medesimo tetto abitazione, bagni, oratorio e caffè, procurando così in uno ai malati stanza, rimedio, devozione e passatemo. Monte-Ortone dista da Abano poco più di un miglio. Le molte etimologie della voce Orione non provano che l’acutezza di chi si procacciò di estrarle dall’antica istoria. Se avesse aquistata piena fede la ipotesi del Fortis, il quale sostenne ingegnosamente che in età contemporanea; alla greca mitologia ardevano qua i vulcani, che diedero origine alla favola di Fetonte e delle Elettridi, il vocabolo Ortone corrotto, secondo lui, di exhortus ed indicante repentino sollevamento, ne sarebbe una conferma. Che al tempo romano qui fossero terme lo fa credere la relazione di scoperte vasche marmoree date dal Vallisnieri. Al contrario non sembra che nell’età mezzane ci avesse qua frequenza di malati, forse per la mestizia del sito. Monte Ortone venne in rinomanza nel 1428 quando un infermo, chiamato Falco, subitamente risanò tosto che s’immerse nella fonte d’aqua tepida scatente dalle radici del monte inverso levante, nel fondo della quale aveva scorta duella imagine della Madonna che ora si vede sopra l’altar maggiore della Chiesa. E la guarigione e il trovamento si tennero in conto di miracolo che acquistò celebrità grandissima a quest’aqua, detta d’allora in poi della Vergine. Le proprietà fisiche di essa hanno vicinissima. analogia colle altre termali, da cui differenzia solamente nella dose tenuissima dei componenti; nel peso specifico pari a quello dell’aqua distillata; nella temperatura che non passa i 21 gradi del Réaumur, e nell’essere usata per bevanda invece che per bagnatura. La peste che inferociva in Padova a que’ dì aiutò la pia credenza e il conseguente religioso fervore. Ad onorare la effigie miracolosa si murò tosto un oratorio il quale in meno che sei anni crebbe a spazioso e nobile tempio, cui si aggiunse un convento abitato per più secoli da Eremiti della regola di s. Agostino. Promotore di cosiffatte opere fu un Fra Simone da Camerino tenuto poco men che per santo, ed al quale, siccome uomo di gran merito e di sperta facondia, venne fatto di riconciliare nell’anno 1454 la Repubblica Veneta col Duca di Milano Francesco Sforza. Non vedesi più nella chiesa un dipinto in cui era espresso l’importante avvenimento. Ma leggasi una lapide che lo ricorda, e si guardino le due tele incolorate da Jacopo Palma e da Antonio Vassilacchi. Chi partendo dal villaggio di Abano si conduce a s. Pietro Montagnone vede a mano diritta, prima della Svolta, il monticello di s. Daniele, cui soprasta un monistero posseduto un tempo da monaci Olivetani, ed ora convertito in privata abitazione. L’agricoltura, la mineralogia, e la medicina rendono congiuntamente, ma per cagioni diverse, notabile questo colle. La prima, perché il lodevole proprietario sig. Bonomi, vi dà l’esempio di una diligente e fruttuosa coltivazione; la seconda, perché vi si trova una varietà di trachite distinta da tutta l’altra degli Euganei, per alcuni cristalli di quarzo prismato che vi sono disseminati; la terza, perché alle sue radici scaturisce un’aqua potabile simile bensì alle altre termali, ma abbondante inoltre di gaz acido carbonico, e di gaz idrogeno solforato. Di quest’aqua, classata dal chiarissimo prof. cav. Catullo fra le solforose fredde nella sua importante opera della Geoqnosia Veneta, fece una recente analisi il prof. Ragazzini aquistandosi così il merito di arricchirne la farmacologia. Casanova, s. Pietro Montagnone e Monte-Groto formano l’un presso l’altro un villaggio medesimo il quale comprende la chiesa, alquante case, parecchi ospizii per bagnatori, due poggetti distinti e molte scaturigini termali; le quali tutte si compongono de’ medesimi principii, e a un dipresso nella stessa quantità, tranne quella detta della lastra, che li contiene si ma in proporzioni minori, e mantenendo costantemente una temperatura molto più bassa. Quindi è limpida, più leggera e si usa con decantati effettil per bevanda. La Casa nova murata nel secolo XV invecchiò, conservando tenacemente la fresca denominazione e, caduta, lasciolla in eredità al sito ove stava. Né per altra ragione io registro questo nome, vuoto ora di significato, se non per commemorare, che il celebre medico Jacopo Dondi estraeva qui con particolari metodi il sale dall’acque termali, giovandosi per indurarlo del loro naturale calore. Cavavasene in copia e nella proporzione di una libbra da ogni mille di acqua; e i principi Carraresi per comodo della città favorirono codesto opifizio (5). Sull’etimologia dei nomi Montagnon e Groto molto sottilmente disputarono gli eruditi. Fra le diverse opinioni sembra preferibile quella che deriva il primo dalla antica famiglia padovana Montagnone; e il secondo dalla primitiva appellazione di Monteguttaro giustificata coi vocaboli guttare e guttarium della bassa latinità. Nei tempi mezzani si costrussero costà que’ bagni in macigno e in pietra calcarea che tuttora si vedono. Alcune leggi della Republica padovana ne comandavano ne’ secoli duodecimo e decimoterzo la custodia e il racconciamento. In que’ secoli guerreschi torreggiava in vetta del monticello vicino alla chiesa una rocca posseduta dalla padovana famiglia de’ Mussaragni, e il sito di Monte-Groto era guardato da una fortezza; ma l’una e l’altra spianò Eccelino. I nostri cronisti ricordano che fu abitatrice di questi luoghi una Berta contadina la quale, a Berta imperatrice, moglie di Enrico IV, presentò nel 1085 una matassa di lino così sottilmente filato che le valse tanto di terreno, quanto lo stesso filo ne circondò: d’onde ha origine il proverbio ricevuto in tutta Italia - passò il tempo che Berta filava - a significare scaduta la prisca liberalità. Della chiesa qui intitolata a s. Pietro trovasi fatta menzione in carte vetustissime. Alcuni asseriscono tenga il posto del tempio di Gerione. Ma che sia anteriore alla seconda metà del secolo IX ne fanno buona prova il calice in piombo e la pisside in legno conservati in questa chiesa, perché Papa Leone IV nell’847 interdisse l’uso de’ vasi sacri così fatti. Dicemmo già che nei dintorni di Monte-Groto e precisamente nella pianura stesa a mezzogiorno del clivo, alto solamente poco più di 14 metri, si scavarono non ispregevoli rottami, testimonii irrefragabili di ricchi ed ornati edifizii. E ben a ragione i nostri antichi padri avevano preferto questo sito, perché vince in amenità ogn’altro de’ luoghi circostanti. Vii prospetta una bella parte della Euganea catena spiegata in anfiteatro, vestita di bruni macchioni, intercisa da seni e da sfondi, saliente per gradi all’opaco Rua, al massimo Venda. E innanzi a questa svariata scena si distendono larghissime praterie; dove sorgono qua e colà pittorescamente alcuni avanzi de’ bagni; e dove sbucano di continuo da questa specie di campi flegrei le termali vaporazioni; le quali rappigliate dalla frescura dell’aria si disegnano in diverse forme fantastiche, leggere, mobili, trasparenti, simili alle caliginose fumicazioni dei vulcani, simili ai capricciosi giochi delle nuvole in cielo. Se delle Terme Euganee variò nel seguito dei tempi sotto più rispetti la condizione, si mantenne per altro costante dai più antichi giorni fino ai presenti la fama della efficacia loro a ristorar la salute. Le raccomandava Aureliano medico del secolo secondo; e i documenti che rapportammo, se non sono sufficienti a dimostrarne la magnificenza, ne mettono per altro in isplendida luce la utilità. Altre scritture del nono e del decimo secolo fanno chiara la non mai interrotta frequenza di ammalati. E quando tornarono, dopo lunghissimo e ferale obblio, in onore gli studii, quando Padova ne diventò sede celebratissima, molti Fisici diedero opera a scandagliare la natura e gli effetti dell’aqua salutare. Ogni successiva generazione contò nuovi illustratori, che tutti insieme comporrebbero una biblioteca volumninosa. Le opinioni loro sono alterne e diverse: lo che accade già sempre ad ogni scienza, ed è poi più specialmente proprio e fatale alla Medicina. I diversi modi per altro di applicare queste aque alla guarigione del corpo umano appartengono anche all’antichità più profonda; forse molto innanzi allo stesso Omero che novera le terme fra le delizie della reggia di Alcinoo. A torto il partito, dirò così, de’ conservatori, accusa di novità il metodo da pochi anni generalizzato di usare per lo più o tepide, o fredde le bagnature e le fangature, che provvida natura somministra calde fin quasi a 70 gradi. Rammenteremo a questi querulosi che l’antico Asclepiade preferiva il bagno freddo al caldo con tanto zelo da venir distinto in Roma col nome di Medico dell’aqua fredda; che Antonio Musa guarì coi bagni freddi una gravissima infermità di Ottaviano Augusto, e gl’irritabili nervi di Orazio; e che la moda delle bagnature fredde introdotta in Roma a’ tempi di Nerone dal Charmis medico francese (perché la Francia fu sempre la patria della moda) aveva presa tanta voga, che nelle terme non adoperavasi più aqua calda; e perfino i vegliardi consolari, lo attesta Plinio, sostenevano di tremare e battere i denti in bagno. Ad uno scrittarello qual è il presente non s’addice impinguarsi colle analisi chimiche operate più volte su codeste aque per conoscerne, partirne e pesarne le minime particelle dei segreti frammisti componenti. Basti accennare all’ingrosso e col vocabolario comune, che le principali sostanze, le quali danno loro virtù proprie sono il sale marino, la calce e la magnesia. Aggiungeremo che quell’odore bituminoso, forte così da sentirsi a buona distanza, non viene già da un principio infusovi dentro e soluto; ma è dato loro per così dire a prestanza da quel gaz che gorgoglia in esse e le attraversa mantenendovisi non per tanto disgiunto, fino a che asceso alla superficie sfuma e si sperde nell’aria. Tanta è la copia di questo gaz nelle fonti più calde che il celere, continuo e sonoro svolgimento delle sue bollicelle dà alle aque aponensi l’apparenza della bollitura: apparenza mostrata mendace dal grado di calore che d’ordinario non fa salire il termometro di Réaumur oltre il grado 68; e quindi è circa 12 gradi al dissotto della temperatura necessaria al bollimento. Parecchi fisici e chimici perseguitarono questo gaz per conoscerne la natura; ma esso, volubile sommamente, sottraevasi clandestino e fugace alle investigazioni più ostinate. Ghermillo finalmente, hanno soli quattro anni, il prof. di Chimica dott. Ragazzini, e torturandolo con isquisite analisi, vi scoperse l’olio di nafta, nel quale stà in soluzione l’acido idrosolforico, donde si spande nell’aria quell’odore che volgarmente è detto di zolfo. E perché a quella soluzione fa mestieri un’alta temperatura, quando il gaz termale uscito dalle aque calde entra nell’aria esterna, se ne stacca per refrigeramento lo zolfo e casca condensato e s’accumula sul margine delle scaturigini. La presenza dello zolfo sul lembo delle sorgenti, la sua mancanza nelle aque investigate colle analisi più rigorose svegliò un’accanita contesa fra due fisici contemporanei. La scoperta del prof. Ragazzini scioglie il nodo e non è infeconda di altri veri che hanno buon valore scientifico (6). Altro fenomeno presentato da queste aque è l’apparenza del loro impietramento ove ristagnino. Mostra la gente del luogo come, raccogliendone in qualsiasi recipiente, depongano una sostanza petrosa, che si disegna secondo la forma di quello. Cotale effetto dipende dal carbonato di calce la quale, svaporato il liquore, s’indura e s’impietra. Onde che si fece non inutile prova di foggiarla per mezzo di forme; e potrebbesi forse per acconci metodi adoperare con felice risultamento codesta aqua in lavori di getto. Infino da rimotissimi tempi fu notato con ammirazione dentro alle nostre fonti vegetare piante e vivere animali: quelle appartenenti al genere dell’alghe, questi delle chiocciole. Si rechino in mano i molti libri che trattano alla distesa l’argomento, quelli che vogliono approfondarlo. Noi ci stimavamo in debito di farne almeno una fuggitiva menzione; perché il considerare che anche in così effervescente calore abbiano ospizio la vegetazione e la vita è occasione ad allargare il nostro pensiero sul mare senza riva degli esseri. E qual è il recondito focolare che scalda queste perenni medicinali fontane; qual è la causa di sì fatta estuazione? Nelle condizioni presenti della scienza manca a siffatta domanda una sicura risposta. La Geologia è tuttora giovane: speriamo che invecchiata potrà spiegare a’ nostri nepoti alcuno de’ tanti misteri che imprende a scrutare, e questo in fra gli altri. Frattanto è forza far buona accoglienza alle ipotesi, che si possono dire il carro su cui camminò innanzi la Fisica; il quale fu spesso rotto, pericolante e rovesciato, e qualche volta invece diventò carro trionfale. Mi permetta il lettore di porgli sott’occhio, in coda a questo minuzioso e pezzato articolo, un brano di fisica popolare, seguendo così l’andare della moda. Fra le diverse sostanze che entrano in qualità di materiali nella formazione della crosta terrestre, la quale crosta stimasi profonda circa 60 miglia, si noverino le piriti, materia, come lo indica lo stesso greco vocabolo, focosa ed infiammabile. Ove nella sotterranea loro stanza passi l’aqua e le bagni, ne avviene ch’essa s’impregni di grande calore e lo conservi in parte anche quando, corso il segreto labirinto degl’intestini meati, esce opportunamente dosata a guarire i dolori, i torpori e le languidezze del corpo umano. Ond’è che per lenta e successiva decomposizione un grande ammasso piritoso impartirà calore anche per lunghissima serie di secoli alle aque che gli trascorrono dappresso. Alcuni combattono tale opinione col dire, che una massa di piriti in decomposizione muterebbe l’acque in vapore e produrrebbe espansioni, squarciature incendii, come di vulcano. Ma nelle ipotesi col mettere un po’ più di una cosa e un poco meno di un’altra, si aggiustano i conti appuntino. Sminuite dunque, se vi piace, il deposito delle piriti che tengono le veci di focolare, o disgregatele in guisa che siano in una tal qual proporzione sparpagliate fra mezzo ad altra materia meno infiammativa, ed accrescete al contrario con liberalità, che non vi costa un baiocco, le dosi dell’aqua in quella cupa caldaia, ed avrete né più né meno i 68 gradi delle terme Euganee. Ciò non pertanto a molti filosofi naturali non garbò punto la detta ipotesi; e ne sostituirono parecchie altre diverse le quali, se non imbroccano la cercata verità valgono per altro a confermare quella del sacro detto; mundum tradidit disputationi eorum. Ma io, per non usurpare con danno del lettore lo spazio a’ miei valorosissimi collaboratori, accennerò a quella soltanto che si collega al calore centrale della terra, il quale è ora, per così dire la potenza in credito nella spiegazione di molti fenomeni analoghi. Il nostro pianeta, oltre il calore che riceve dal sole ne ha un altro tutto suo proprio, il quale si riscontra maggiore di mano in mano che si entri più profondamente nelle sue viscere. La perforazione dei pozzi artesiani porse il destro di conoscere cotale successiva correlazione. È notorio come il pozzo di Grenelle profondo 505 metri somministri l’aqua alla temperatura di quasi 27 gradi del centigrado. Ora gli esperimenti fatti e rinnovati con severa esattezza, e dentro al foro di Grenelle e in quelli della scuola militare dì s. Andrea nel medesimo bacino di Parigi, offrono l’inoppugnabile risultamento, che il calore si aumenta in ragione della profondità, e nella media proporzione di un grado del termometro per ogni 30 metri. Penetriamo dunque dal suolo di Abano nel seno della terra tanto quanto bisogna per trovare la temperatura massima ordinaria delle sue aque termali. Essa misurasí in gradi 68 di Réaumur corrispondenti a circa 87 del termometro centigrado; ma da questi 87 gli è d’uopo sottrarne 17 che segnano la temperatura atmosferica media del nostro clima. L’eccesso di 70 gradi moltiplicati per trenta metri ci dà il prodotto di 2100 metri. Dunque, dopo una discesa perpendicolare sotterranea di quasi due miglia, eccoci (senza che ci sia attraversato il cammino né da piriti, né da schisti, né da infocati ammassi vulcanici, né dallo spavento delle combustioni, né dai pericoli di quelle espansioni del vapore che al presente minacciato sulla faccia della terra e de’ mari la vita umana) eccoci ai preziosi serbatoi delle aque medicinali. E qui lascio il lettore paziente. Lo caverà tosto da queste tenebrose profondità qualche altra delle guide che si offrono nella presente Strenna di accompagnare i suoi passi pei colli Euganei. Riconducendolo a respirare aria libera, ed a rivedere la volta de’ cieli, gli trarrà dall’animo ogni noia col mostrargli le cime indorate dai raggi del sole, le valli pascolate da’ placidi armenti, i boschi, i dossi, i seni, le gole, i paesetti, le ville, e le rovine di molte castella occasione ai romanzeschi racconti. Purché per altro nell’ufficio di condottiero a me invece non succeda chi lo rattenga sepolto in questi luoghi muti di luce, dove non fa maì persona viva, per ischiarargli colla face della Geologia l’antichissima patria della trachite e dì altre materie minerali; che divelte e cacciate in su dai terrestri sollevamenti (7) trasmigrarono ad abitare in vetta o nelle falde de’ nostri monti: le quali, se avessero senso e favella, direbbero forse, come il Doge di Genova ostaggio a Parigi: Je suis etonné de me voir ici. Andrea CITTADELLA VIGODARZERE NOTE (1)
Pignoria, Scardeone,
Orsato, Zanetti,
Portenari, Mandruzzato.
(2) Mandruzzato, vol. I. pag. 12.
Da: Strenna
dei Colli Euganei (1846, a cura degli editori del «Giornale Euganeo»
J. Crescini, G. Stefani
– ripresa in I Colli Euganei (Bologna 1978, Riedizione anastatica,
Atesa Editrice).
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1827, durante
i lavori agricoli che un certo P. Scapin
sta eseguedo nella sua tenuta, vengono alla luce 180 tazzine fittili
e 16 bronzetti che nel 1878 perverranno al museo civico di Padova; [Da Luigi Frignani, in Padova, 1994, Stocchiero Periodici] |
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